Salute e persona: nella formazione, nel lavoro e nel welfare. Multidisciplinarietà e logiche condivise. Ebook ADAPT n. 68/2017

La salute in un mondo del lavoro dalle coordinate sempre più incerte.
di Silvia Bruzzone

Tag: #disabilità #cronicità #salute #lavoro #welfare #diritti umani #discriminazioni #ASviS #Agenda2030 #UE2020

1. Innovazione e società.
La ricerca e l’innovazione (definita dall’OCSE nell’Oslo Manual come “l’implementazione di un prodotto – bene o servizio – nuovo o significativamente migliorato, oppure un processo, un nuovo metodo di marketing, o altrimenti un nuovo metodo organizzativo di business, luogo di lavoro o relazioni esterne”) sono al centro delle politiche promosse dalla Commissione europea per rilanciare l’occupazione, la crescita e gli investimenti.
Da un lato esse rappresentano un investimento a beneficio della nostra salute, perché forniscono e forniranno gli strumenti necessari per una medicina più personalizzata; miglioreranno la prevenzione e il trattamento delle malattie; permetteranno di fare nuove scoperte scientifiche e di fare diagnosi più precise con terapie più efficaci; consentiranno la diffusione di nuovi modelli di assistenza e di nuove tecnologie per la promozione della salute e del benessere.
Dall’altro, per le aziende, la ricerca e l’innovazione sono essenziali per crescere ed essere sufficientemente flessibili rispetto all’evoluzione dei mercati. L’innovazione organizzativa, in particolare, richiede l’utilizzo del capitale umano, l’implementazione dei metodi più efficaci di organizzazione del lavoro – anche in ottica interdisciplinare – e la gestione delle molteplici questioni di equilibrio vita-lavoro.
I grandi cambiamenti che hanno caratterizzato gli ultimi decenni del mondo del lavoro sono, infatti, destinati a proseguire in futuro. Le incertezze sono molte. L’invecchiamento della popolazione, l’innalzamento dell’aspettativa di vita, gli sviluppi della ricerca scientifica sono, invece, solo alcune certezze. Esse ci hanno semplicemente messo davanti una situazione che fino a qualche decennio fa si credeva riguardasse “solo” coloro che nascevano con patologie congenite, o chi si trovava a “dover fare i conti” con infortuni sul lavoro o malattie professionali: si ritenevano temi talmente “circoscritti” da giungere all’emanazione di normative ad hoc (ad esempio la legge 68/99) solo dopo aver fatto grandi battaglie per i diritti civili ed umani.
Il tema della salute è oggi approfondito per più aspetti e a vari livelli.
E’ tra l’altro argomento divenuto urgente, negli ultimi anni, in merito alla sostenibilità dei sistemi nazionali di welfare presenti e futuri (M.TIRABOSCHI, “Le nuove frontiere dei sistemi di welfare: occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche”., in D.R.I. 2015, n. 3). Nell’ambito dell’ordinamento italiano vi sono una serie di norme – che si sono sedimentate nel tempo, anche in modo caotico – a tutela di singole specifiche patologie, dello stato di malattia, degli infortuni e delle malattie professionali; per il riconoscimento di prestazioni assistenziali e previdenziali attraverso, peraltro, accertamenti sempre più inadeguati che focalizzano l’attenzione sulle conseguenze delle patologie, anziché prestare attenzione ai bisogni reali e al livello di “funzionamento” della persona stessa nell’ottica prevista dalla Classificazione Internazionale del Funzionamento, della salute e della Disabilità (OMS 2001).
Con l’ICF verrebbero meno le distinzioni, peraltro incomprensibili e sovente discriminanti, tra disabilità grave e non grave, o tra grave e gravissima, tra cronicità progressiva e non, tra disabilità e cronicità. Verrebbero considerate e classificate le funzioni e le strutture corporee, le attività e il grado di partecipazione dell’individuo nei contesti di vita quotidiana; sarebbero valutati i fattori contestuali relativi all’ambiente fisico e sociale; sarebbero individuati gli ostacoli da rimuovere e gli interventi da effettuare (amplius M. LEONARDI – C. SCARATTI, “Persone con malattie croniche nel mondo del lavoro in Europa e modello biopsicosociale della disabilità. Il progetto PATHWAYS”., in Boll. Spec. ADAPT, 18 maggio 2016, n. 7, http://www.bollettinoadapt.it/persone-con-malattie-croniche-nel-mondo-del-lavoro-europa-e-modello-biopsicosociale-della-disabilita-il-progetto-pathways/ ).
L’inadeguatezza e gli effetti controproducenti dei sistemi di accertamento esistenti sono oggi ancora più evidenti che in passato, perché le tecnologie stesse consentono di ripensare al grado di partecipazione del singolo alla vita quotidiana: una donna con patologia progressiva in stadio avanzato può continuare a svolgere il proprio lavoro di ingegnere informatico utilizzando il solo movimento delle palpebre, avvalendosi di una postazione creata per lei. La robotica e la biotecnologia consentono ad una persona amputata agli arti di continuare a camminare e guidare. Talune attività complesse (di elaborazioni di dati e documenti, di programmazione di software, il software testing e il monitoraggio di sistemi) sono svolte da persone con patologie intellettive a cd. “alto rendimento”.
Il paradosso è attuale visto che il tema del rapporto tra tecnologia e lavoro è al centro del dibattito pubblico con la cd. IV Rivoluzione Industriale (cfr. L’indagine conoscitiva assegnata dalla Presidenza del Senato alla 11a Commissione Lavoro e Previdenza Sociale https://www.senato.it/4332?link_atto=1348 ; ved. “ICT e lavoro: nuove prospettive di analisi per la salute e la sicurezza sul lavoro”., INAIL, 2016, https://www.inail.it/cs/internet/docs/alg-pubbl-ict-e-lavoro-nuove-prospettive-di-analisi.pdf ).
Occorre anche prendere atto di tutta una serie di cambiamenti della società e dei rapporti interpersonali; della diffusione dello stress lavoro correlato; dei numeri del precariato e dell’insicurezza sul lavoro; oltre alla crisi socio-economica dell’ultimo decennio. Essi hanno determinato tutta una serie di vecchie e nuove “situazioni di salute” come, ad esempio, la depressione per le persone disoccupate che spesso viene sottaciuta, se non ignorata: l’’utenza trattata dai servizi di Salute Mentale nell’anno 2015 (secondo i dati forniti dal Sistema informativo salute mentale) è stata di 777.035 soggetti, con un tasso pari a 1.593,8 / 100.000 ab., mentre l’utenza al primo contatto è stata di 369.569 soggetti, pari al 47,6% dei trattati e a 728,9 / 100.000 ab. Il numero di accessi al PS per patologie psichiatriche ammonta a 585.087 (1.154,6 / 100.000 ab.). Si va dai disturbi affettivi, nevrotici e depressivi, alla schizofrenia, ma anche dai disturbi di personalità a quelli da abuso di sostanze. Si tratta dei dati ufficiali relative alle persone che hanno richiesto cure e/o supporto. Il dato, come immaginabile, è ben più elevato.
Vi sono poi le statistiche riguardanti migliaia di altre patologie rare e non. Tra le altre quelle riguardanti il cancro, ovvero “un insieme di circa 200 malattie caratterizzate da un’abnorme crescita cellulare, svincolata dai normali meccanismi di controllo dell’organismo” (così “I numeri del cancro in Italia 2016, 2016, pag. 17, http://www.registri-tumori.it/PDF/AIOM2016/I_numeri_del_cancro_2016.pdf), le cui cause note di alterazioni del DNA sono di vari ordini: ambientale, genetiche, infettive, legate agli stili di vita e fattori casuali. Secondo i dati 2017 vi sono mille nuove diagnosi al giorno. Tremila in più rispetto al 2016: in tutto 369mila nuovi casi Proprio le patologie oncologiche consentono di avere ancora più chiara l’inadeguatezza delle normative e delle disposizioni predisposte ad oggi per l’inserimento e la conservazione dell’occupazione (per approf. Ved. Boll. Spec. Adapt. 21 maggio 2015, n. 14, “Guarire dal cancro: criticità, bisogni e nuovi diritti.”, a cura di E. IANNELLI e F. SILVAGGI http://www.bollettinoadapt.it/bollettino-adapt/speciale/21-maggio-2015-n-14/ ). Non solo perché come per tutte le altre malattie non è detto che sia l’unica diagnosi esistente in capo alla persona, ma perché vi sono patologie che pur avendo lo stesso hanno evoluzione – quanto a terapia ed esiti – diversi da individuo ad individuo, anche le età sono le più diverse, i bisogni e i contesti socio-ambientali diversissimi, quelli formativi e/o lavorativi.

 

2. Ripensare le molteplici interazioni tra salute, persona, lavoro e welfare.
Ciò che resta, e resterà essenziale in futuro, è la necessità di un cambio concreto ed effettivo di paradigma del rapporto tra lavoro e cittadinanza: occorre incentivare la partecipazione attiva delle persone alla vita produttiva quale elemento di coesione sociale, da un lato, e di strumento di realizzazione individuale, dall’altro.
E’ fondamentale, quindi, ripensare i rapporti tra salute, persona, lavoro e welfare a più livelli: politico, normativo, contrattuale. Ed è necessario farlo in chiave multi ed interdisciplinare, per sviluppare linguaggi e logiche condivise prima e politiche/normative efficaci poi. Se si pensa alle persone in cerca di occupazione e ai diversi indicatori d’identità che caratterizzano ciascun individuo (età, razza, stato di salute, genere, orientamento sessuale, religione ecc.) occorre arrendersi al fatto che – allo stato attuale –non si sommano, ma si moltiplicano, gli svantaggi e le diseguaglianze. I sistemi di relazioni industriali attuali, e prima ancora le Istituzioni pubbliche di molte realtà locali, non sono ancora riusciti a fornire prescrizioni utili a consentire lo sviluppo di iniziative rivolte a soggetti particolarmente discriminati nel mondo del lavoro come le persone con disabilità sensoriali, intellettive, psichiatre. A tal proposito appaiono, invece, degne di nota una serie di azioni di sistema a valenza regionale, attualmente in svolgimento, che vedono come Capofila la Provincia di Monza e della Brianza sul territorio lombardo, e che sperimentano due assi di intervento sia in relazione agli approcci di politiche di disability management sia alla creazione di supporto tecnologico per migliorare l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità sensoriale (www.lavoripossibili.it). Si ritengono utili ivi richiamarle perché rappresentano un esempio di sinergia tra Istituzioni pubbliche, private e del cd. “privato-sociale” capace di offrire opportunità di apprendimento e di evoluzione tanto delle abilità, quanto delle competenze coerenti con le opportunità offerte che rispondono anche agli obiettivi di EUROPA 2020 e dell’Agenda ONU 2030. (sul tema della certificazione ved. Boll. Spec. ADAPT., 23 marzo 2016, n. 6, Il futuro della certificazione delle competenze., a cura di L. CASANO e G.R. SIMONCINI, http://www.bollettinoadapt.it/bollettino-adapt/speciale/bollettino-speciale-adapt-23-marzo-2016-n-6/ ).
Anche la promozione della partecipazione dei lavoratori alla governance della realtà lavorativa attraverso lo sviluppo di forme innovative di welfare aziendale, ad integrazione di quello pubblico universale, non ha raggiunto ancora una maturità sufficiente per riuscire a comprendere quanto tali misure siano (e potranno essere in futuro) innovative, efficaci e aderenti alle specifiche esigenze del lavoratore stesso (amplius T. TREU, Introduzione Welfare aziendale., WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 297/2016). I dati meramente quantitativi, per il momento, inducono a pensare che servano ulteriori passaggi: le aziende che – grazie al welfare aziendale – avrebbero diritto ad una riduzione fino all’azzeramento del prelievo fiscale sui premi di risultato sono quasi 1,8 milioni, ma ad approfittare della possibilità risultano non più di 11 mila. Quelle venete, secondo i dati del Ministero del Lavoro aggiornati a luglio 2017 erano 2.080 (così G. Favero Il welfare aziendale, questo sconosciuto, Il Corriere del Veneto, 9 ottobre 2017).
Non ultimo è il tema dell’accesso alle opportunità di apprendimento per tutto l’arco della vita che consenta di sviluppare una partecipazione piena nella società civile. E’ argomento estremamente attuale considerando solo il numero di 234.658 alunni con disabilità iscritti all’anno scolastico 2017/2018 (fonte: MIUR -Ufficio Statistica e Studi – “Anticipazione sui principali dati della scuola statale”). L’istruzione, la formazione, l’alternanza scuola-lavoro, tutte necessariamente concepite in ottica realmente inclusiva, sono propedeutiche ed essenziali ad ogni possibile considerazione sull’inserimento e sul mantenimento del lavoro. Lo sono alla luce della situazione occupazionale attuale, al numero di persone che non riescono ad inserirsi nel mercato del lavoro o che, a seguito della crisi economica e/o del proprio stato di salute, ne sono fuoriuscite.

3. AGENDA ONU 2030 e il Rapporto ASviS 2017
Mentre a livello europeo prosegue, lentamente, l’iter dell’ European Accessibility Act, peraltro con una serie di risultati “contraddittori” [visto che, da un lato, è stato “accolto” l’obbligo di rendere accessibili gli edifici nuovi e ristrutturati aventi a che fare con servizi bancari, telefonici e di trasporto (articolo 3.10), ma – dall’altro – è stata respinta l’applicazione della legge alle PMI (articolo 12) e risultano esclusi prodotti e servizi come il commercio elettronico e gli e-book], in Italia, .il recente Rapporto 2017 dell’ASviS (l’Alleanza Italiana per lo sviluppo sostenibile) rileva la necessità di uno sviluppo economico inclusivo, cioè in grado di generare lavoro e reddito adeguato per la più ampia fascia possibile della popolazione, pena il rischio di un’insostenibilità sociale a sua volta generatrice di tensioni che non favoriranno la redditività e gli investimenti.
In questa prospettiva, nel Rapporto sono messe in evidenza tre tendenze dominanti nei segmenti più avanzati del sistema produttivo: l’importanza di un’innovazione basata sulle tecnologie digitali; il passaggio all’economia circolare; lo sviluppo di una nuova generazione di infrastrutture adeguate al 21esimo secolo. Dette tendenze, tra le altre, se sapientemente indirizzate, permetteranno di essere proficue per tutti: si pensi allo sviluppo di nuovi prodotti e servizi; alle nuove opportunità di business e le nuove metodologie di lavoro; ai nuovi lavori anche nei cd. settori della green economy, della blue economy ecc. Sono ovviamente necessari la diffusione delle infrastrutture digitali, la modernizzazione dei servizi di trasporto e nuovi approcci in molti contesti della nostra società (ad esempio la diffusione delle best practices del cd. “turismo accessibile”).
La salute della persona – come cittadino e come lavoratore – è un aspetto essenziale. Lo stesso Rapporto ASviS 2017 ricorda che le disuguaglianze in termini di accesso ai servizi restano in Italia molto ampie. Nonostante la recente adozione dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) è stata avanzata la necessità di “ridefinire i confini del rapporto tra attuazione dei diritti e vincoli di bilancio, rivedendo gli attuali criteri di bilanciamento tra disponibilità finanziarie e garanzie dei diritti fondamentali”. E’ stata anche rimarcata l’importanza di investire nella prevenzione e nei corretti stili di vita; quella di implementare e migliorare la gestione pubblico-privata dei servizi per la cura delle patologie (soprattutto quelle croniche, visti i numeri in aumento esponenziale); parimenti l’importanza di investire maggiori risorse nella ricerca biomedica e bio-tecnologica (che vede, peraltro, il nostro Paese particolarmente capace e produttivo).
Nei 17 obiettivi di AGENDA ONU 2030 è esplicitata l’esigenza di definire qualificate politiche di sviluppo partendo dall’applicazione concreta di tutti gli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani. Le persone con disabilità sono citate, fra l’altro, nell’obiettivo 4 (Assicurare un’educazione di qualità inclusiva e equa e promuovere l’apprendimento per tutta la vita come opportunità per tutti) e nell’obiettivo 8 (Promuovere una crescita economica sostenuta, inclusiva e sostenibile, un impiego pieno e produttivo ed un lavoro dignitoso per tutti).
In particolare il punto 4.5. “impegna «entro il 2030 ad eliminare nell’educazione le disparità di genere e assicurare eguale accesso a tutti i livelli di educazione e formazione professionale a tutti i gruppi vulnerabili includendo le persone con disabilità». E’, altresì, scritto come sia necessario «costruire e aggiornare i sostegni educativi sensibili ai minori, alla disabilità ed al genere, e offrire un ambiente sicuro, non violento inclusivo ed effettivo per tutti».
Il punto 8.5 dichiara che «entro il 2030, (bisogna) conseguire un impiego pieno e produttivo e un lavoro dignitoso per tutti gli uomini e donne, includendo i giovani e le persone con disabilità, e una retribuzione eguale per lavori di eguale valore».
Su entrambi gli obiettivi il Rapporto AsviS 2017 ha evidenziato alcuni dei settori nei quali il nostro Paese necessita di investimenti e interventi, anche organizzativi, al fine “di assicurare una qualità adeguata della forza lavoro e delle tutele adatte ai cambiamenti previsti per i prossimi anni:
• incentivare gli studi nelle discipline STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics);
• dotarsi di un programma nazionale di lifelong learning rivolto a tutta la popolazione;
• investire nelle politiche attive del lavoro e nel sostegno alle start-up innovative e alle nuove imprese under-35 “tradizionali”.
• portare a regime il sistema di alternanza scuola-lavoro e di orientamento.

4. Le disposizioni dell’INAIL rivolte alle persone con “disabilità da lavoro”.
Per conseguire l’obiettivo di “un impiego pieno e produttivo e un lavoro dignitoso per tutti gli uomini e donne, includendo i giovani e le persone con disabilità”, occorre un cambio di paradigma culturale generale che preveda: “soggettività” (superando la standardizzazione dei servizi), “etica” (elaborando un vero e proprio “patto di fiducia”) e “condivisione” (valorizzando il lavoro di rete). Occorre riportare la persona al centro, nella progettazione e nell’impostazione delle scelte organizzative e di gestione.
I modelli di regolazione standardizzati risultano sempre più inadeguati alla prova dei fatti, almeno per quanto attiene alle valutazioni sulle esigenze di cura e di conciliazione vita e lavoro delle persone. L’adozione diffusa degli adattamenti ragionevoli – di cui all’art. 2 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità- è quindi auspicabile (S. BRUZZONE, L’inclusione lavorativa e gli “accomodamenti ragionevoli”: prime riflessioni., Boll. Spec. ADAPT, 18 maggio 2016, n. 7, http://www.bollettinoadapt.it/linclusione-lavorativa-e-gli-accomodamenti-ra-gionevoli-prime-riflessioni/ ), non per adempiere solo a diritti formali di matrice legale, ma per consentire interventi formativi, riabilitativi e di inserimento efficaci in contesti dove vi sono nuove tipologie contrattuali, nuove forme di lavoro, nuovi modi di produrre e lavorare, nuovi concetti di idoneità e di capacità lavorativa.

Dall’esame delle disposizioni dell’ultimo biennio “in materia di reinserimento e di integrazione lavorativa delle persone con disabilità “da lavoro”, possono trarsi alcuni spunti e considerazioni. Quello che è stato avviato con l’art. 1, comma 166, della Legge 160/2014, rappresenta un modello di tutela privilegiato – in virtù di una disposizione di rango costituzionale (art. 38, comma 2, Cost.) – che costituisce la prima vera attuazione dell’art. 3 bis del decreto legislativo 216/2003, secondo cui gli accomodamenti ragionevoli sono un vero diritto soggettivo delle persone con disabilità.
E’ un canale “sperimentale e graduale” di interventi rivolti alla conservazione del posto di lavoro per gli assicurati (cfr. Reg. INAIL n. 258 del luglio 2017; Circolare Inail n. 51/2016 e dalla delibera n.2 del 22 febbraio 2017) e al reinserimento lavorativo con nuova occupazione (così circolare Inail, n. 30/2017) di persone che a causa di un infortunio sul lavoro o di una malattia professionale, hanno “riportato una menomazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva che, indipendentemente dal grado della menomazione stessa, è causa di difficoltà motoria o sensoriali, di apprendimento di relazione, tale da determinare problematiche di integrazione lavorativa nonché processi di svantaggio sociale o di emarginazione”.
Al di là della terminologia persona con disabilità “da lavoro” (ved. Circ. INAIL 51/2016) che stona con la lett. e) del Prambolo della Convenzione ONU, secondo cui la disabilità è un concetto in evoluzione ed è “il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”, si ritiene apprezzabile aver previsto l’applicazione della normativa indipendentemente dal grado della menomazione, stante quanto supra specificato circa la logica dell’ICF e l’inutilità delle percentuali ancora oggi applicate per gli accertamenti.
Altrettanto importante è il tentativo di dare una prima indicazione di massima delle tipologie di interventi possibili distinguendo tra:
– gli interventi di superamento e di abbattimento delle barriere architettoniche nei luoghi di lavoro [che comprendono gli interventi edilizi, impiantistici e domotici], nonché i dispositivi finalizzati a consentire l’accessibilità e la fruibilità degli ambienti];
– quelli di adeguamento e di adattamento delle postazioni di lavoro che comprendono gli interventi di adeguamento di arredi facenti parte della postazione di lavoro, gli ausili e i dispositivi tecnologici, informatici o di automazione funzionali all’adeguamento della postazione o delle attrezzature di lavoro, ausili o dispositivi di supporto di deficit sensoriali o motori, di strumenti di interfaccia macchina-utente (sono compresi i comandi speciali e gli adattamenti di veicoli costituenti strumenti di lavoro);
– gli interventi di formazione (comprendenti gli interventi personalizzati di “addestramento” all’utilizzo delle postazioni e delle attrezzature di lavoro; i corsi di formazione e tutoraggio utili ad assicurare lo svolgimento della mansione o riqualificare per adibire ad altra mansione).
Il tema non è di poco conto stante la necessità di approfondire con chiarezza la differenza tra gli accomodamenti e quelli che, invece, devono considerarsi dei sostegni nel collocamento mirato ex legge 68/1999.

Essenziale, in un’ottica più ampia, è ovviamente la copertura finanziaria delle iniziative.
Degna di nota poi è la valorizzazione dell’equipe multidisciplinare che deve valutare il profilo psicofisico, funzionale e lavorativo della persona al fine di elaborare il progetto e il piano esecutivo.
Vi sono figure essenziali non ancora sufficientemente valorizzate nel nostro paese. Gli psicologi, anzitutto, per effettuare un primo bilancio di competenze, l’analisi del livello di accettazione della situazione da parte della persona attraverso l’osservazione della capacità di reazione agli eventi stressanti e alle frustrazioni; l’analisi dei sostegni familiari e sociali; l’individuazione e il rinforzo di fragilità e di risorse sia personali che di ambito lavorativo. Parimenti essenziale è la “lettura delle organizzazioni”: la comprensione del clima e della salute dei gruppi che non può essere fatta attraverso il mero conteggio di fenomeni falsamente considerati oggettivi, come le assenze o il turnover del personale (così E. CORDARO, La valutazione esistenziale del lavoro e della dimensione psico-sociale nel lavoro che cambia, pp.111, AA.VV. Ergonomia nel lavoro che cambia., Ed. Palinsesto 2010). Tali approfondimenti sono ancor più essenziali che in passato poiché il processo di separazione del lavoratore dal posto di lavoro oggi, è ulteriormente rafforzato da scelte organizzative e situazioni contrattuali che rendono “contestualmente evanescente e impalpabile lo stesso spazio fisico del luogo di lavoro”. Per alcuni il lavoro così concepito può perdere quella rappresentatività emotiva e sociale che ha sempre garantito e può continuare a garantire una maggiore forza al senso d’identità e un adeguato rinforzo alla stima di sé, rischiando di rendere particolarmente fragile i soggetti di fronte alle situazioni stressanti che lavoro e vita possono determinare (ved. E. CORDARO, La valutazione esistenziale del lavoro e della dimensione dei processi psicosociali nel lavoro che cambia, in AA.VV. Ergonomia nel lavoro che cambia, oper. cit. p. 113)”.
Altrettanto importanti sono i terapisti occupazionali – professionisti sanitari che lavorano per il raggiungimento della massima autonomia possibile da parte della persona che ha subito un danno fisico/psichico all’interno di un percorso/progetto riabilitativo (cfr. Decreto Ministeriale 17 gennaio 1997, n. 136 “Regolamento concernente la individuazione della figura e relativo profilo professionale del terapista occupazionale”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 24 maggio 1997, n. 119) – e gli ergonomi, ovvero coloro che studiano le interazioni tra l’uomo e gli altri elementi di un sistema, applicando teoria, principi, dati e metodi di progettazione al fine di ottimizzare il comportamento umano e le prestazioni del sistema nel suo complesso. [definizione dell’International Ergonomics Association (IEA), 2000].
Le equipes interdisciplinari per la riabilitazione – intesa come il processo di cambiamento attivo attraverso il quale una persona acquisisce e usa le conoscenze e le abilità necessarie per rendere ottimali le proprie funzioni fisiche, psicologiche e sociali (http://www.who.int/disabilities/care/Rehab2030MeetingReport2.pdf?ua=1 ) – richiedono diffusione concreta, più di quanto non sia.

L’approccio indicato nella normativa INAIL circa la formazione del progetto lavorativo personalizzato presenta una serie di fasi che sarebbero importanti in tutte le situazioni e in tutti i contesti: dall’acquisizione delle risultanze della visita medica (effettuata dal medico competente o dal servizio di prevenzione della ASL) in merito all’idoneità alla mansione specifica; alla rilevazione dei bisogni e delle esigenze del lavoratore; al sopralluogo nell’ambiente di lavoro e all’acquisizione dei bisogni/necessità del datore.
Qualche perplessità sorge tuttavia in relazione a quelle che potranno essere i reali risultati, in termini soprattutto quantitativi, dell’iniziativa poiché le formalità e i criteri previsti per l’elaborazione del progetto e del piano esecutivo prevedono una serie di condizioni che renderanno esiguo il numero di aziende in grado di avanzare la richiesta.

 

5.Conclusioni.
Nell’ambito dei grandi cambiamenti che stiamo vivendo, con tutti i vantaggi e svantaggi ad essi collegati e da più parti studiati, appare importante rimarcare il ruolo della cooperazione che – anche alla luce delle Riforme in essere – si spera possa sempre più rispondere alle necessità della produzione e dei mercati. Il bagaglio di esperienza che molte realtà hanno sviluppato nel lavoro di rete e in settori nevralgici per la società civile, dovrebbe essere visto come una ricchezza anche per il settore “for profit” e per la Pubblica Amministrazione. Le stesse soluzioni di inserimento e di mantenimento dell’occupazione adottate per le persone con disabilità in molte realtà del cd. Terzo settore sono patrimonio comune da non sottovalutare.
Ovviamente servono anche decisioni politiche importanti sul costo del lavoro; sugli incentivi concreti agli esempi realmente virtuosi di responsabilità sociale d’impresa; sul sistema di finanziamento del sistema previdenziale e su quello socio-assistenziale.
Occorrono cambiamenti profondi nell’intero ambiente che ci circonda.

 

Silvia Bruzzone https://moodle.adaptland.it/mod/page/view.php?id=15393

Avvocato
Direttore Responsabile Osservatorio “Chronic Diseases and Work”

@silvia_bruzzone

part time e disabilità: le novità nel job act

L’art. 8 del D. Lgs. 81/2015 ha abrogato la precedente disposizione sul part time di cui all’art. 12 bis del D. Lgs. 61.

Vi sono molte novità.

Innanzitutto i destinatari del diritto di chiedere al proprio datore di lavoro la trasformazione del rapporto da tempo pieno a part time.

Di seguito il comma relativo:

“3. I lavoratori del settore pubblico e del settore privato affetti da patologie oncologiche nonche’ da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti, per i quali residui una ridotta capacita’ lavorativa, eventualmente anche a causa degli effetti invalidanti di terapie salvavita, accertata da una commissione medica istituita presso l’azienda unita’ sanitaria locale territorialmente competente, hanno diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale. A richiesta del lavoratore il rapporto di lavoro a tempo parziale e’ trasformato nuovamente in rapporto di lavoro a tempo pieno”.

Sicuramente vi sono dei dubbi sull’individuazione delle patologie cronico-degenerative ingravescenti perché non vi è ha alcun riferimento nell’ambito medico-legale e la decisione sarà lasciata alla discrezionalità valutativa di una “commissione medica (che non ha peraltro criteri o linee guida cui attenersi).

La commissione giudicante, secondo il testo di legge, è quella “istituita presso l’azienda unità sanitaria locale territorialmente competente”: manca il chiarimento circa la competenza di quest’ultima: non è chiaro se occorre fare riferimento alla sede dell’azienda o al domicilio del lavoratore.

Unici riferimenti attualmente esistenti, lo ricordiamo, sono l’elenco delle malattie considerate croniche ed invalidanti ai sensi dell’art. 5 comma 1, lettera a) del D. Lgs. 29 aprile 1998 n. 124 e le indicazioni inserite nell’art. 2 del D.M. 278/2000 (Regolamento recante disposizioni di attuazione dell’articolo 4 della L. 8 marzo 2000, n. 53, concernente congedi per eventi e cause particolari) secondo cui per gravi motivi si intendono le seguenti patologie:

1) patologie acute o croniche che determinano temporanea o permanente riduzione o perdita dell’autonomia personale, ivi incluse le affezioni croniche di natura congenita, reumatica, neoplastica, infettiva, dismetabolica, post-traumatica, neurologica, neuromuscolare, psichiatrica, derivanti da dipendenze, a carattere evolutivo o soggette a riacutizzazioni periodiche;

2) patologie acute o croniche che richiedono assistenza continuativa o frequenti monitoraggi clinici, ematochimici e strumentali;

3) patologie acute o croniche che richiedono la partecipazione attiva del familiare nel trattamento sanitario;

4) patologie dell’infanzia e dell’età evolutiva aventi le caratteristiche di cui ai precedenti numeri 1, 2, e 3 o per le quali il programma terapeutico e riabilitativo richiede il coinvolgimento dei genitori o del soggetto che esercita la potestà.

Vi sono anche altre criticità rispetto a chi presta assistenza a persona con disabilità:

– In caso di patologie oncologiche o gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti riguardanti il coniuge, i figli o i genitori del lavoratore o della lavoratrice,
– nonche’ nel caso in cui il lavoratore o la lavoratrice assista una persona convivente con totale e permanente inabilita’ lavorativa con connotazione di gravita’ ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, che abbia necessita’ di assistenza continua in quanto non in grado di compiere gli atti quotidiani della vita,

per tutti loro e’ riconosciuta la priorita’ nella trasformazione del contratto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale (comma 4).

In caso di richiesta del lavoratore o della lavoratrice, con figlio convivente di eta’ non superiore a tredici anni o con figlio convivente portatore di handicap ai sensi dell’articolo 3 della legge n. 104 del 1992, e’ riconosciuta la priorita’ nella trasformazione del contratto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale (comma 5).

Tra coloro che posso fare richiesta vengo previsti il coniuge, il figlio, il genitore. Anche in questo caso (come era già avvenuto nella prima versione dell’ art. 12 bis del decreto 61/2000) non si sono indicate né formule disgiuntive (o), né limitazioni (in alternativa” l’uno all’altro). Quindi, ad una analisi letterale, tutti i parenti elencati possono far conto sulla priorità nella trasformazione del rapporto di lavoro.

Tra coloro che possono godere della priorità vi è anche: il lavoratore o la lavoratrice che assiste “una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa, che assuma connotazione di gravità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, alla quale è stata riconosciuta una percentuale di invalidità pari al 100 per cento, con necessità di assistenza continua in quanto non in grado di compiere gli atti quotidiani della vita.”.

Considerata la sistematica e protratta esclusione dei conviventi more uxorio da tutte le disposizioni previste per le altre agevolazioni a favore di chi assiste una persona con disabilità, il fatto di aver previsto la sola condizione della convivenza, senza averla imposta, rappresenta una svista o una formulazione “poco ragionata” della norma.

Il Legislatore, inoltre, ha inserito nella stessa disposizione i concetti di invalidità civile (totale e permanente inabilità lavorativa), il concetto di handicap grave (art. 3, co. 3, legge 104/1992) e una delle due definizioni sanitarie previste per l’indennità di accompagnamento (art. 1, Legge 11 febbraio 1980, n. 18).

Occorre ora attendere l’applicazione concreta della disposizione. Da parte delle aziende e nella contrattazione collettiva.

E’ sempre bene farsi assistere da qualcuno che conosca veramente la materia.

l’importanza di conoscere il periodo di malattia cui si ha diritto

Il datore di lavoro non può licenziare il lavoratore in malattia, nei limiti di un periodo di conservazione del posto di lavoro (c.d. periodo di comporto) stabilito dalla legge, dai CCNL o, in mancanza, dagli usi (art. 2110, c. 2, c.c.).

L’arco di tempo di riferimento per calcolare il periodo di comporto può essere l’anno solare o l’anno di calendario, a seconda della previsione contrattuale. Per “anno di calendario” si deve intendere il periodo di tempo compreso tra il 1° gennaio e il 31 dicembre di ogni anno, mentre per “anno solare” si deve intendere un periodo di 365 giorni decorrenti dal primo episodio della malattia (se continuativa) o a ritroso dalla data di licenziamento.
La durata del periodo di comporto (per i soli impiegati, fatte salve le disposizioni più favorevoli contenute nei contratti collettivi) è diversa a seconda dell’anzianità di servizio del lavoratore (art. 6, R.D.L. 1825/24):
– 3 mesi, quando l’anzianità di servizio non supera i dieci anni;
– 6 mesi, quando l’anzianità di servizio supera i dieci anni.
Per gli operai, invece, la durata del periodo di comporto è stabilita dalla contrattazione collettiva.
In quasi tutti i contratti è previsto un maggior periodo di comporto nelle particolari ipotesi di malattie lunghe, caratterizzate dalla necessità di cure post-operatorie e/o terapie salvavita.

Il comporto può essere di due tipi:
– “secco”, se il periodo di conservazione del posto è riferito a un’unica e ininterrotta malattia;
– “per sommatoria” o “frazionato”, se le clausole contrattuali prevedono un arco di tempo entro il quale la somma dei periodi di malattia non può superare un determinato limite di conservazione del posto (ad esempio 180 giorni nell’arco di un anno solare). In tal caso si tiene conto di tutti gli eventi morbosi verificatisi in tale arco di tempo di riferimento.

È bene, in prossimità della conclusione del periodo di comporto, chiedere la consulenza a un avvocato giuslavorista per verificare la situazione e decidere come procedere.

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discriminazioni: definizioni, esempi e procedura per chiedere tutela.

Per eliminare le discriminazioni sul lavoro nel nostro Paese non si fa abbastanza.
Va detto che vi è una legge ormai risalente al 2003 [ il D.lgs. 216/2003, con le modificazioni apportate nel 2008 (perchè, come spesso è accaduto in passato, il nostro Legislatore non aveva recepito correttamente e completamente la normativa comunitaria) e poi nel 2011].

Tale legge è poco conosciuta e ancor meno applicata concretamente dalle aziende, nelle amministrazioni pubbliche, dalle Istituzioni.

Timidi cenni informativi sono stati dati da UNAR (l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio dei Ministri), qualche giorno fa, in occasione della presentazione della propria attività per il 2014.
I numeri presenti nei comunicati stampa sono poco chiari. Apparentemente sembrerebbero distinguere fra persone con disabilità e stranieri. Se così fosse si sarebbe fatta una differenziazione e raccolta dati poco realistica perchè sicuramente tra le persone con disabilità vi saranno anche degli stranieri.

Emergono in ogni caso fatti ormai noti: la discriminazione avviene soprattutto nell’inserimento e le segnalazioni partono da soggetti estranei agli episodi di discriminazione stessa (cd. testimoni o associazioni di rappresentanza).

Nella fase di selezione e di accesso nel mondo del lavoro si verifica la discriminazione quando, per esempio, a parità di curriculum si sceglie il candidato che non ha indicato alcuna iscrizione al collocamento mirato, oppure quando si richiede un requisito (come la patente o la conoscenza di una lingua straniera) che non è necessario per lo svolgimento concreto della mansione.

E’ parimenti discriminazione, ad esempio, chiedere ai candidati il tipo di patologia per cui si è ottenuta l’invalidità e la relativa iscrizione nelle liste della legge 68, scegliendo poi coloro che hanno patologie non progressive.

Sono discriminazioni non facili da dimostrare. Spesso le persone preferiscono rinunciare a priori ad ogni iniziativa. E’ anche vero che gli annunci prima e i colloqui di selezione dopo vengono fatti senza la presenza di persone terze che possa garantire il rispetto dei principi di legge.

In alcuni stati stranieri, consapevoli della possibilità, si fa sempre in modo che vi sia qualcuno a verificare il corretto svolgimento della scelta del candidato più idoneo e preparato.

Di discriminazione si hanno molti esempi anche durante lo svolgimento dell’attività professionale: nello sviluppo della carriera o nel caso di voci retributive basate sulla produttività.

La discriminazione viene distinta in diretta (ovvero quando una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia un’altra in una situazione analoga) o indiretta (quando un comportamento apparentemente neutro può mettere le persone in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone).
Questo secondo tipo di discriminazione è la più difficile da accertare, sia per i diretti interessati, sia per chi deve affiancarsi alla persona nella denuncia e chiederne l’eliminazione. Si sono, ad esempio, presentati casi di calcoli sul premio di risultato, contenuti in contratti collettivi aziendali, che apparentemente erano corretti e “neutri”, ma che in fase di applicazione andavano a discriminare e penalizzare (riducendo il premio annuale) chi aveva fruito dei permessi della legge 104 – per sé o per un proprio familiare – pur avendo raggiunto tutti gli obiettivi previsti.

Sono considerate discriminazioni anche le molestie che si manifestano con comportamenti indesiderati attuati allo scopo di violare la dignità di una persona creando un clima intimidatorio, ostile, umiliante, offensivo o degradante.

Il caso più grave è il licenziamento discriminatorio, ovvero motivato da ragioni di salute, senza verifica dell’idoneità alla mansione da parte del medico competente. Altre situazioni possono essere collegate alla fruizione dei permessi della legge 104/92 per se stessi e/o per chi si assiste; la mancata progressione di carriera a causa di un periodo di malattia e altre situazioni – non ancora giudicate, per quanto consta, nei Tribunali – come ad esempio il mancato utilizzo di accomodamenti ragionevoli per lo svolgimento del lavoro.

Nell’art. 216 viene specificato l’ambito di applicazione:
1. Il principio di parita’ di trattamento senza distinzione di  religione, di convinzioni personali, di handicap, di eta’ e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore  pubblico che privato ed e’ suscettibile di tutela giurisdizionale con specifico riferimento alle seguenti aree:
a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti  di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento;
c) accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;
d) affiliazione e attivita’ nell’ambito di organizzazioni di lavoratori, di datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali e prestazioni erogate dalle medesime organizzazioni.
2. La disciplina di cui al presente decreto fa salve tutte le disposizioni vigenti in materia di:
a) condizioni di ingresso, soggiorno ed accesso all’occupazione,
all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato;
b) sicurezza e protezione sociale;
c) sicurezza pubblica, tutela dell’ordine pubblico, prevenzione dei reati e tutela della salute;
d) stato civile e prestazioni che ne derivano;
e) forze armate, limitatamente ai fattori di eta’ e di handicap.
3. Nel rispetto dei principi di proporzionalita’ e ragionevolezza e purche’ la finalita’ sia legittima, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attivita’ di impresa, non costituiscono
atti di discriminazione quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’eta’ o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attivita’ lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attivita’ medesima.
4. Sono fatte salve le disposizioni che prevedono accertamenti di idoneita’ al lavoro.
4-bis. Sono fatte salve le disposizioni che prevedono trattamenti differenziati in ragione dell’eta’ dei lavoratori e in particolare quelle che disciplinano:
a) la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, allo scopo di favorire l’inserimento professionale o di assicurare la protezione degli stessi;
b) la fissazione di condizioni minime di eta’, di esperienza professionale o di anzianita’ di lavoro per l’accesso all’occupazione o a taluni vantaggi connessi all’occupazione;
c) la fissazione di un’eta’ massima per l’assunzione, basata sulle condizioni di formazione richieste per il lavoro in questione o sulla necessita’ di un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento.
4-ter. Le disposizioni di cui al comma 4-bis sono fatte salve purche’ siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate da finalita’ legittime, quali giustificati obiettivi della politica del
lavoro, del mercato del lavoro e della formazione professionale, qualora i mezzi per il conseguimento di tali finalita’ siano appropriati e necessari.
5. Non costituiscono atti di discriminazione le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell’ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attivita’ professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attivita’.
6. Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalita’ legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari. In particolare, resta ferma la legittimita’ di atti diretti all’esclusione dallo svolgimento di attivita’ lavorativa che riguardi la cura, l’assistenza, l’istruzione e l’educazione di soggetti minorenni nei confronti di coloro che siano stati condannati in via definitiva per reati che concernono la liberta’ sessuale dei minori e la pornografia minorile.

Chi intende agire in giudizio per il riconoscimento della sussistenza di una discriminazioni deve prima avvalersi della procedura di conciliazione. Se essa non ha risultato si può ricorrere all’azione giudiziaria.
È competente il tribunale del luogo in cui il ricorrente (il soggetto discriminato) ha il domicilio.
Nel giudizio di primo grado le parti possono stare in giudizio personalmente.
Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell’azienda interessata.
Con l’ordinanza che definisce il giudizio il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedire la ripetizione della discriminazione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Nei casi di comportamento discriminatorio di carattere collettivo, il piano è adottato sentito l’ente collettivo ricorrente.
Ai fini della liquidazione del danno, il giudice tiene conto del fatto che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento.
Quando accoglie la domanda proposta, il giudice può ordinare la pubblicazione del provvedimento, per una sola volta e a spese del convenuto, su un quotidiano di tiratura nazionale.

In ogni caso consiglio di avvalersi dell’assistenza di un avvocato esperto di diritto del lavoro, che abbia esperienza pregressa su una materia del tutto peculiare e delicata.

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perchè una guida e un blog su “salute disabilità e lavoro”?

Di salute e disabilità si parla e si scrive: molti direbbero “per fortuna”;  altri direbbero “spesso a vanvera”.

Sta di fatto che da un lato vi sono  i ricercatori e i medici (anche bravi!), impegnati nel trovare cause e cure per farci stare meglio, dare sollievo alla cronicità, al dolore, addirittura vivere più a lungo! Dall’altro gli economisti e i sociologi (anche’essi altrettanto bravi!) che si pongono domande – ragionevoli – sulla spesa sanitaria e di protezione sociale: tutti concordano sul fatto che vi è la necessità di rigenerare la competitività dei territori per far fronte alla crescente domanda di bisogni sociali per l’invecchiamento, la non autosufficienza, la precarizzazione del lavoro, l’impoverimento, l’emarginazione e il disagio.

Al centro di tutto questo……le persone e le loro vite.

Molte di esse sono definite “persone con disabilità”. Si tratta di persone che in vari momenti della loro vita hanno avuto problemi di salute e diagnosi varie. Aggiungo: quando hanno avuto “la fortuna” di avere la diagnosi, perchè ci sono molti che non riescono a dare un nome ai loro sintomi e malesseri e non si sentono definire neanche “malati rari”.  In ogni caso i termini sono tanti:  disabilità congenita o acquisita;  patologia cronica o progressiva;  disabilità sensoriali, intellettive, psichiche, motorie, multiple.  Io preferirei parlare semplicemente di “persone”, non solo perché “siamo tutti tali”, quanto perché i termini e le definizioni portano spesso ad una parcellizzazione delle istanze di tutela e rappresentanza nei confronti della società e delle Istituzioni  che è sciocca, immotivata e – spessissimo – deleteria.

I momenti di incontro e di approccio multidisciplinare “alla persona” sono sempre più numerosi, ma è bene che  vi sia una sempre più diffusa assunzione di responsabilità anche  individuale, oltre a quella  associativa.  Proprio in tempi in cui la situazione socio – economica appare  non migliorare è bene conoscere leggi, finanziamenti e progetti.

Occorre, in altre parole, tenersi informati.

Con la guida pratica “salute disabilità e lavoro: parità di trattamento, conciliazione, reasonable accomodation” (che ricordo essere rivolta a tutti coloro che non sono “tecnici del diritto”), mi sono posta l’obiettivo di contribuire a far sì che le persone possano  assumersi  la responsabilità di conoscere meglio argomenti di non immediata comprensione o reperibilità, ma che sono essenziali per sapere cosa chiedere, a chi chiedere e in che modo, quando si affronta l’inserimento nel mercato del lavoro o si fa il possibile per mantenere la propria occupazione.

Mi auguro di esserci riuscita. Ho scritto pensando veramente a tutti, senza distinzione alcuna.

Non è rivolta ad avvocati, patronati, sindacati, commercialisti e consulente del lavoro. Tutti loro hanno altri modi e strumenti per svolgere la loro professione  e ricoprire il loro ruolo.

Poichè la guida rappresenta solo una traccia semplificata della materia, ho pensato di aprire questo blog per fornire – nel tempo – approfondimenti, novità e chiarimenti.

Visto che “il passo è stato fatto” …… immagino sia necessario dire un paio di parole anche su di me: l’Autrice.

E’ dal 1998 che mi occupo – decisamente in modo prevalente – delle tematiche di interesse per le persone con disabilità e le loro famiglie.

Tutto è avvenuto per puro caso. Io giovane laureata, facevo  il praticantato in uno studio legale della mia città – in tutta onestà poco intenzionata a voler fare l’avvocato, nella vita (all’epoca ero estremamente lungimirante!!) – quando  mi venne offerta la possibilità di partecipare ad un corso di formazione che era del tutto  innovativo per il nostro Paese.

Otto persone, con esperienze e percorsi formativi diversissimi tra loro, si trovarono per sei mesi a studiare e approfondire tutti temi nuovi e, non sempre, facili da comprendere: ricordo ancora il giorno in cui venne un medico a spiegare il sistema neurologico! Nonostante figure e schemi mi sembrava  che parlasse il cinese! Non fu l’unico!

Oltre alla laureata in giurisprudenza con “specializzazione” in diritto del lavoro, c’erano un informatico, un ingegnere, un architetto, un assistente sociale, una psicologa, una terapista occupazionale e un neurologo.

Ciascuno (compresi i docenti che si avvicendavano settimana dopo settimana) parlava un proprio  “linguaggio professionale”, ciascuno conosceva bene le proprie materie, ma doveva sforzarsi di capire gli altri, il diverso  ruolo, le diverse competenze…. e poi dovevamo fare in modo di lavorare insieme. Una vera impresa!!!

L’obiettivo del corso era “ambizioso”,  riguardava la “disabilità motoria e il lavoro” e l’intento era quello di creare una equipe multidisciplinare che avrebbe dovuto essere di consulenza per le persone con disabilità e la società tutta (Istituzioni, aziende, enti).  Oltre a noi, vennero costituite altre 6 equipe analoghe, per  6 diverse regioni, e lavorammo per un altro anno.  Non so bene come andò a finire. Il Progetto si concluse il 30 giugno del 2000.

Voglio però dirvi cosa fu per me quell’esperienza, perchè rappresentò “l’ inizio” di un percorso di vita, oltre che  professionale e formativo.

Ci fecero bendare, sedere su una carrozzina, ci legarono un braccio dietro la schiena. Utilizzarono anche delle cuffie, per isolarci acusticamente dagli altri del gruppo che stavano parlando.  Ascoltammo esperienze di persone con disabilità. Ci venne spiegato cosa era la “disabilità” (come era vista e nascosta, come era rappresentata ed ignorata):  ci raccontarono  di diritti ottenuti dopo lunghe battaglie, altri negati; di leggi esistenti e disapplicate; di tecnologia e Universal design ancora agli inizi; di una  Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità che era ancora lontano dall’essere approvata e poi ratificata.

In quell’anno e mezzo ripensai a tante persone care che mi avevano accompagnato per periodi più o meno lunghi della mia vita fino ad allora e ai molti che continuavano ad essere presenti: erano stati semplicemente nonni, genitori, zii, cugini ed amici. Il fatto di essere ciechi, sordi, invalidi di guerra, invalidi del lavoro, disabili psichiatrici era per loro talmente una condizione dell’essere “essere umani” in quanto tali da non aver mai – nessuno di loro – posto “l’accento sull’assenza delle vista, della gamba o della pace interiore”. Fino a  quasi trent’anni  non avevo sentito parlare di “persona con disabilità”, neanche la parola “invalido” quando venne inserito nella mia classe alle elementari un bambino in carrozzina che non parlava, ma sorrideva sempre quando veniva tra noi.

Fu solo nel 1998 allora che capii che tutti loro, per la società e per la legge, erano “invalidi”, “handicappati”, disabili.

Ma io avevo avuto, e continuavo ad avere, la fortuna di vedere davanti a me semplicemente ” delle persone che avevano vissuto e/o vivevano la loro vita come meglio avevano potuto e/o potevano.

Tutti loro e molti altri conosciuti da allora sono stati la mia vita e la mia forza e continueranno ad essere con me per tutto il tempo concessomi.

https://d19tqk5t6qcjac.cloudfront.net/i/412.htmlal via!